L'ateismo sofferto
Mi definisco ateo. Non credo in Dio, ma il mio non è l'ateismo gioioso e arrogante dei quattro cavalieri del Nuovo Ateismo, i quali, crogiolandosi nella loro presunta superiorità intellettuale, ferocemente attaccano il pensiero religioso e giudicano il mondo senza divinità l'utopia ultima di una umanità finalmente libera e consapevole delle proprie capacità.
No, il mio è un ateismo sofferto con cui convivo male e che vorrei non mi appartenesse. Purtroppo, la mia conoscenza (superficiale e inadeguata, senza dubbio) del mondo mi porta a questa tremenda conclusione, e non riesco a credere col cuore a qualcosa che la ragione rifiuta, anche se così mi riuscirebbe probabilmente meglio vivere.
Innanzitutto, cos'è l'ateismo per me? Ateismo non significa non credere ad una divinità qualsiasi. Quello è semplice. Come Einstein e Spinoza, mi riesce facile credere ad una divinità impersonale e disincarnata, che si identifica molte volte con l'universo stesso, e a cui si conferiscono proprietà astratte e logico-matematiche. La parte difficile, almeno per me, è credere in un Dio personale, come quello cristiano, un Dio che ha a cuore l'umanità e si prende cura di essa. Questo, dal mio punto di vista, è l'unica divinità che conta, perché è l'unica divinità che può consolare. Azzarderei addirittura l'ipotesi che il pensiero religioso sia nato per soddisfare un bisogno consolatorio che è innato nell'essere umano, in balia di una natura capricciosa e distante. Per una madre che ha appena perso il figlio, un Dio che non può rispondere alle sue preghiere non è un Dio che valga la pena avere, semplicemente.
E Dio non risponde mai. Se la divinità esiste, essa è deserta e silenziosa, e quindi inutile. L'attacco più devastante all'idea del Dio personale, il Dio cristiano, infinitamente potente, saggio e buono, non è notare l'inconsistenza logica delle tre proprietà, ma bensì chiedersi, come tutti penso si siano chiesti prima o poi nella loro vita, perché il male, e da dove. Se Dio esiste, se è una persona, se Egli ha a cuore l'umanità sopra ogni altra cosa, perché ha creato un mondo pieno di nefandezze e iniquità? È il problema del male l'obiezione più convincente all'esistenza del Dio personale.
I teologi hanno tentato di risolvere il problema con le ipotesi più disparate: Dio ha voluto dare il libero arbitrio agli uomini, ed è colpa loro se lo hanno usato per fare il male; oppure, il bene può essere apprezzato solo in contrapposizione al male. Queste soluzioni non mi convincono, perché il male a volte è estremo e senza alcun significato. Che colpa può avere, o che speranza di beneficio futuro che possa in qualche modo contestualizzare il dolore provato, un infante che muore a seguito di una terribile malattia? È l'obiezione durissima che Ivan muove ad Alyosha ne I Fratelli Karamazov, e che io trovo assolutamente letale:
"E se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all'acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto."
Il Dio che ha creato gli uomini a sua immagine e somiglianza non può esistere. E in questo io non trovo alcuna ragione di giubilo, come invece pensano alcuni atei che sono tanto lontani da me quanto i fondamentalisti religiosi. La morte di Dio, per usare una metafora Nietzschiana, è una tragedia da cui la nostra coscienza collettiva ancora deve riaversi. La nostra capacità raziocinante ci dice inequivocabilmente che Dio non esiste, ma questa idea è talmente radicata nella nostra coscienza, e, chissà, forse persino nella nostra biologia, che la realizzazione improvvisa del lutto ha creato una spaccatura insanabile nella nostra anima che ci ha resi orfani di senso e infinitamente più infelici di prima.
Ma mettiamo per un attimo che noi, da esseri umani, alla fin fine potremmo anche fare a meno di un Dio buono. Ma un Demiurgo, qualcuno che abbia infuso la creazione di uno scopo, qualunque esso sia, che renda la nostra esistenza su questa Terra filosoficamente almeno tollerabile? Persino questo ci è negato. La scienza descrive un mondo di relazioni matematiche tra le cose (cosa siano queste cose poi è e probabilmente resterà per sempre un grande mistero), ma le leggi universali che scopre non sono mai teleologiche, o, in altre parole, non hanno alcun fine o significato intrinseco. L'universo semplicemente è, esiste, e le cose accadono senza che ci sia dietro un disegno. Il significato che vediamo, o che crediamo di vedere, nelle cose è una struttura che la nostra mente impone su un aggregato di eventi senza senso, che avvengono per necessità matematica. Per quanto ne sappiamo, l'universo non è nè fu creato da una Persona.
In un mondo siffatto non c'è posto per Dio, e le cose accadono senza un motivo preciso. Questo lo trovo molto difficile da accettare. L'esistenzialismo o la filosofia postmoderna proclamano la bellezza liberatoria della creazione di un significato totalmente personale in un universo che ne è privo e che è tecnicamente assurdo. Ma qualsiasi significato io possa creare da essere umano può solamente essere un palliativo a una esistenza che io so essere insensata, perché non c'è nessuno al di fuori di me, più grande di me, che le abbia dato un senso e un fine ultimo. È un modo come un altro di non guardare il problema negli occhi e farci i conti.
E come ci si fa i conti? Un Dio buono non può esistere perché i bambini muoiono. È possibile trovare un senso universale (e umano) in un mondo senza Dio? Forse ci sbagliamo e un fine ultimo, una logica teleologica, nelle leggi matematiche dell'universo c'è e semplicemente non siamo ancora stati in grado di scoprirla. Ammesso che ci sia, qualunque sia il fine ultimo dell'universo, non può che essere stato redatto da un Dio indifferente, impersonale, che non pensa nè sente come noi, e che forse le nostre disgrazie non può nemmeno comprenderle.
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